Il pricing? Ecco perché lo deve gestire il top management

La missione di TIM è quella di supportare le Aziende nelle fasi di sviluppo e/o di ristrutturazione, affiancandole nella gestione del cambiamento

Il pricing? Ecco perché lo deve gestire il top management

Il prezzo è un fattore sul quale molto spesso non si pone abbastanza enfasi all’interno delle aziende ed è invece determinante all’interno della strategia aziendale e per il conseguimento di una soddisfacente redditività del business. Gli incrementi di prezzo su un bene o servizio hanno normalmente una redditività maggiore di 3 o 4 volte rispetto ad un analogo aumento nei volumi di vendita. 

 

Le aziende che non delegano al reparto vendite e marketing la decisione dei prezzi, ma coinvolgono il top management nella formulazione della strategia di pricing, hanno un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza. 

 

Un’indagine di Premoneo, azienda specializzata nello sviluppo di software per il pricing e forecasting, ha rilevato come in un’azienda di medie dimensioni una crescita in volumi dell’1% porta ad un aumento dell’utile del 3,3%. Se invece si verifica l’aumento di prezzi dell’1% l’incremento sull’utile può portare a una crescita dell’utile fino a oltre l’11%.

 

Warren Buffet in merito al pricing ha detto che: “Se hai il potere di aumentare i prezzi senza perdere volumi a favore di un concorrente, hai un ottimo business. Se, invece, devi dire una preghiera prima di aumentare il prezzo di un centesimo, allora hai un pessimo business.” 

Ovviamente vanno contestualizzate le strategie relative al pricing, a seconda del settore e del modello di business di un’azienda. 

 

Hermann Simon, il maggiore esperto di pricing nel mondo, però nel 2017 affermava come nelle aziende dove il CEO è coinvolto nella definizione del pricing si verifica un impatto sugli utili fino a un terzo maggiore rispetto alle aziende dove il Ceo non interviene, dimostrando al tempo stesso quanto sia rischioso delegare le pricing strategies a personale con meno competenze. 

 

E’ un’ottima iniziativa incominciare ad introdurre il pricing come tema all’interno delle discussioni del top management, considerando l’impatto sull’andamento aziendale, unendolo alle classiche metriche già in uso. Se i top manager hanno ancora una predisposizione a focalizzarsi solo sulle vendite e sul fatturato occorre aumentare la loro sensibilità riguardo la marginalità.

 

I top manager devono affrontare un percorso articolato,  partendo dalla stesura di una strategia di pricing ed arrivando ad un sistema che gestisca e monitori al meglio la performance rispetto al prezzo praticato, anche utilizzando software ed intelligenza artificiale, che incrocino i dati interni ed esterni all’azienda ed indichino quando e come sia opportuno modificare il prezzo.

 

Rendere i C-Level partecipi delle decisioni riguardo il pricing, introduce il prezzo nella cultura aziendale unendolo alla strategia e al posizionamento di mercato, rendendo la strategia complessiva dell’azienda più omogenea e più compatta su tutti i fronti, sostanzialmente più efficace.

 

Mentre in molti altri ambiti aziendali, l’arretratezza tecnologica rappresenta un ostacolo, in tema di pricing si possono cominciare a mettere a frutto nuove strategie anche senza l’uso di strumenti specifici. La prima competenza da sviluppare per un CEO rimane la sensibilità riguardo il pricing. Si possono usare inizialmente fogli di calcolo o i sistemi ERP e successivamente investire in software più sofisticati ed in intelligenza artificiale. 

 

Può succedere che a livello operativo alcune figure del top management si rendano conto più facilmente dell’aggiustamento necessario in termini di pricing; figure come il CFO che hanno sotto controllo tutto il panorama finanziario dell’azienda sono spesso le prime a proporre un miglioramento in termini di margini di profitto attraverso un aggiustamento del pricing. Oppure può essere il Chief Technology Officer stesso a proporre soluzioni AI in ambito pricing e forecasting per efficientare i processi. 

 

Spesso non è razionale aspettare che l’input sia sempre bottom-up. 

E’ importante che l’imprenditore o il CEO abbiano sotto controllo il pricing aziendale e che incomincino in prima persona ad impostare un percorso per efficientare la strategia ed il monitoraggio del prezzo.

 

Molte aziende stanno introducendo ora figure come il Chief Pricing Officer, figure che si occupano di individuare il prezzo ottimale per ogni prodotto o servizio. 

 

TIM Management, grazie al vasto network di manager C-level del quale dispone, può aiutare nell’inserire una figura temporary in area finance per operare la pianificazione e l’implementazione di una strategia pricing adeguata, insieme a tutte le altre attività che possano contribuire a incrementare i margini e l’efficienza aziendale. 

A differenza di altre azioni di medio periodo, cambiare la strategia di pricing non richiede nessun cambio strutturale dell’azienda e per questo motivo si possono attuare i cambiamenti in breve termine. L’azienda ne beneficerà istantaneamente riscontrando possibilmente una marginalità maggiore e sicuramente acquisendo maggiore solidità.

 

La stretta relazione tra capitale umano e crescita economica

L’Italia già in fase pre-pandemica stava attraversando una fase di bassa crescita economica e bassa produttività, complice la mancanza di una serie di riforme necessarie per ammodernare il sistema, che oggi grazie al PNRR si spera di poter avviare. 

In uno studio condotto da Community Research&Analysis per Federmeccanica-Umana intervistando diversi imprenditori, è emerso che dopo la pressione fiscale e la burocrazia, alcune delle riforme più urgenti da attuare sarebbero inerenti alla tassazione sul lavoro, il cuneo fiscale, e allo scollamento della formazione scolastica rispetto alle esigenze delle imprese. 

 

E’ bene differenziare in macro categorie i due grandi meccanismi che si interfacciano tra loro: da una parte il sistema paese e dall’altra le imprese stesse. 

Riguardo il sistema paese, il tema principale riguarda la pressione fiscale ritenuta eccessiva dal 36,7% degli intervistati. Praticamente a pari merito con la burocrazia, ritenuta eccessiva dal 34,1%. Appena dopo però vengono il mercato del lavoro, troppo rigido secondo il 13,3% degli intervistati, ed un sistema formativo distante dalle necessità del sistema produttivo, secondo l’8.5%.

 

Scendendo nello specifico del mercato del lavoro, gli imprenditori segnalano l’esigenza di intervenire urgentemente sul tema fiscale. Oltre il 34% è d’accordo sulla diminuzione dell’aggravio fiscale sul lavoro, il cuneo fiscale di cui tanto si parla da anni ma che rimane il quinto più alto tra i Paesi Ocse: 46,5% nel 2021. 

Il 20,6% degli imprenditori è poi d’accordo nel migliorare il rapporto tra sistema formativo e produttivo ed il 14,9% vorrebbe più flessibilità riguardo l’assunzione del personale.

 

In sintesi, per attuare delle politiche sul mercato del lavoro efficaci secondo gli imprenditori, andrebbe abbassata la tassazione sul lavoro e ci vorrebbe maggiore sinergia tra la formazione delle scuole e le imprese. 

Mentre a livello di sistema paese le riforme sul lavoro erano percepite come prioritarie, ma in ordine secondario rispetto ad altre riforme, quando si focalizza l’attenzione sulle strategie delle singole aziende lo scenario cambia.

Nello studio condotto, le tre strategie che hanno raccolto il maggior consenso sono state: 

  1. l’investimento nel capitale umano (20,6%), 
  2. la diversificazione dei prodotti e dei servizi (20%) e 
  3. il miglioramento della tecnologia e l’innovazione (19,9%).

 

Investire nel capitale umano ha un ritorno esponenziale per l’azienda. 

Tanto più il capitale umano di un’azienda è valido, tanto più un’impresa si arricchisce ed mostra una spinta maggiore alla crescita. 

Molto spesso però la struttura stessa delle aziende ed i suoi limiti finanziari ne vincolano l’innovazione, la crescita e quindi anche l’investimento nel capitale umano.

In tema di produttività infatti, le grandi aziende Italiane sono tra le migliori, raggiungendo quasi i livelli della Germania. Il problema risiede nelle piccole aziende che rappresentano la maggioranza delle imprese italiane e il cuore del sistema paese. 

 

Le piccole aziende oltre a soffrire in termini di crescita e produttività, bloccano anche il mercato del lavoro non riuscendo ad inserire figure di alto profilo al loro interno, generando l’educational mismatch ovvero, il disallineamento tra il titolo di studio conseguito e la posizione lavorativa. 

 

Di base poi in Italia si investe in assoluto poco nella formazione essendo, l’unico paese dell’Unione Europea in cui la spesa per interessi del debito pubblico supera quella per l’istruzione e non solo per i tassi di interesse più alti!

 

Questi due elementi fanno sì che ci sia il più basso numero di laureati, il 28% tra i 25 ed i 34 anni, rispetto alla media Ocse del 47%, e che molti di loro decidono di emigrare all’estero per avere opportunità di lavoro e carriera attraenti.

 

Nel confronto con gli altri paesi si vede come ci sia una forte relazione tra il reddito pro capite ed il livello di istruzione. Si calcola che nei paesi sviluppati un anno in più di istruzione possa aumentare la retribuzione del 10%. Ovviamente il rendimento è maggiore nei paesi in via di sviluppo e tende a diminuire nei paesi con i livelli di istruzione più elevati. 

Di base il mercato del lavoro è quindi un sistema complesso che necessita urgentemente di cambiamenti strutturali importanti. Con il PNRR, oltre allo sviluppo dell’industria 4.0, alla transizione energetica ed ecologica, si spera di poter riequilibrare il mercato del lavoro con la riduzione del cuneo fiscale ed introducendo condizioni migliori e salari più alti.

 

Nel frattempo però gli imprenditori possono e devono investire nel capitale umano con le risorse della quale dispongono, investendo nelle risorse migliori per poter rimanere competitivi sui mercati. 

Non sempre questo investimento deve appesantire il budget dell’impresa con assunzioni a tempo indeterminato, in funzioni che spesso non sono identificabili a priori come permanenti; un buon esempio di queste necessità sono tutte le figure legate alla digital transformation o al setup del monitoraggio dei valori ESG, ma anche, più banalmente, l’introduzione di un nuovo ERP di ultima generazione.

TIM Management può intervenire con successo in contesti di questo genere, offrendo dei manager ad interim, che portano competenze e know-how di alta qualità ad un costo temporaneo e inferiore rispetto all’inserimento a della figura manageriale a tempo indeterminato; inoltre gli interim manager aiutano l’organizzazione a crescere e a poter gestire le nuove necessità in autonomia, una volta che il temporary assignment sia concluso.